venerdì 14 ottobre 2016

CAFE’ SOCIETY (2016)













C’inoltriamo senza pensarci troppo, coinvolti dalla calda fotografia e dalle musiche avvolgenti, all’interno dell’America degli anni trenta, guidati dalla voce del narratore.
Le atmosfere calde e vivaci di Hollywood e di New York sono abilmente differenziate dal colore della fotografia curata dall’italiano Vittorio Storaro, che ha scelto dei toni più chiari e netti per descrivere New York (a parte una splendida inquadratura di un tramonto aranciato) e quella quasi dorata, d’altri tempi, di Hollywood.
E poi, c’è l’America che tutti abbiamo immaginato, immersa in quei colori e con un sottofondo jazz che ci accompagna per tutta la durata del film.
Se pensiamo per un attimo che quell’America, che ci appare così vitale, sotto la guida di Roosevelt stava appena uscendo dalla “Grande Depressione” e la paragoniamo per un attimo alle contemporanee atmosfere europee, c’è da restare attoniti.
Ci avvince, nel film, quel farci sentire partecipi, quasi dentro le scene, in mezzo ai passanti o agli avventori del café, delle vicende dei nostri protagonisti.
Del delicato sentimento che li avvolge e che forse non li lascerà mai, anche quando la vita prenderà strade diverse e li accompagnerà verso altre persone o li farà diventare genitori.
Quel sentimento delicato ed avvolgente che nasce con la timidezza incredibilmente e contraddittoriamente sfrontata di Bobby (Jesse Eisenberg) e con la grazia dolce ed adorante di Vonnie (una stupenda Kristen Stewart) che accompagnerà i loro pensieri ed i loro sogni forse per tutta la vita.
Non credo che Allen potesse scegliere un modo migliore per chiudere il film se non con una semplice e delicata scena, quasi noncurante del sentimento che si leggeva negli occhi di Bobby,a cui faceva eco a distanza quello degli occhi di Vonnie.
Quasi a sottolineare la trascuratezza e la disattenzione della vita reale verso i sentimenti profondi, che spesso albergano e travagliano la nostra mente ed i nostri cuori.
Nessuna crudeltà in tutto questo, ma solo la triste, indifferente vita quotidiana.
Una vita che, citando una frase del film tipica della malinconica arguzia di Woody Allen, appare spesso come una “commedia scritta da un sadico che fa il commediografo”
Si potrebbe ancora parlare ed indagare sulle motivazioni che l’hanno spinto a realizzare questo film e perché in queste modalità; ma, credo che quanto già detto ci lasci intuire già tutto.
Allen ci sta vicino, con la sua voce fuori campo, e ci racconta e descrive i due protagonisti mentre li seguiamo muoversi indaffarati all’interno della realtà familiare e lavorativa d’ogni giorno, senza che la macchina da presa sposi più di tanto il loro punto di vista, se non nei rari momenti d’intimità necessari.

E’ l’America con i suoi grattacieli e le strade affollate, il jazz, i gangsters, il mondo del cinema ed i locali alla moda; sono Bobby, Vonnie e gli altri, sono i ricordi della famiglia ebrea, sono i sentimenti che albergano silenziosi nei nostri cuori e tutti noi spettatori insieme al regista i veri protagonisti del film 

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